L’usufrutto rotativo su strumenti finanziari [estratto]

L’usufrutto rotativo su strumenti finanziari: definizione e fondamento.

L’ammissibilità di un patto, cosiddetto di rotatività, che, in sede di costituzione del diritto di usufrutto su strumenti finanziari, ne preveda la possibile surrogazione, senza effetti novativi, per volontà del nudo proprietario e/o dell’usufruttuario, deve riconoscersi in virtù della disciplina comune dell’usufrutto, quale ius in re aliena, in base alla quale l’identità dell’oggetto non è essenziale all’identità del diritto, qualora la cosa, oggetto del diritto, non rilevi in sé, bensì in ragione della sua natura e/o della sua funzione: ciò che consente, per l’appunto, in questi casi, la surrogazione della cosa, individualmente considerata, con un altra, avente la medesima natura e/o funzione, per ragioni indipendenti o dipendenti dalla volontà delle parti, ferma l’identità del rapporto, come originariamente costituito. Deve altresì riconoscersi in virtù del generale principio, sotteso alla normativa speciale vigente, secondo cui, in materia di vincoli su strumenti finanziari, a rilevare non sono gli strumenti nella loro individualità, bensì il valore economico che essi complessivamente rappresentano: e ciò in piena aderenza all’interesse del titolare del diritto, che non è rivolto al bene nella sua individualità, ma al suo valore economico.

Nicola Facchin

Interesse sociale nella società per azioni: teoria istituzionalista e teoria contrattualista

Il dibattito sull’interesse sociale storicamente nasce e si sviluppa per dare risposta ai problemi posti dallo sviluppo della grande impresa, prevalentemente organizzata nella forma della società per azioni, nella quale la proprietà è dissociata dal controllo e il potere di pianificazione, devoluto agli organi direttivi, ha i caratteri del potere politico.
In questo quadro, s’impone, nel primo dopoguerra, in Germania, la teoria istituzionalista dell’interesse sociale, la quale afferma la supremazia dell’interesse dell’impresa in sé su qualunque altro e a questo interesse subordina l’interesse degli stessi soci.
Fondatore della teoria istituzionalista viene generalmente considerato Walther Rathenau.
Nella visione di Rathenau, uomo politico, uomo d’affari ed acuto osservatore di problemi, l’impresa di grandi dimensioni si stacca dai soci proprietari e dai loro interessi privati, per assumere rilevanza propria, come elemento dell’economia collettiva. Essa deve essere lasciata libera di perseguire i propri fini, che sono quelli di costruire ricchezza per la comunità, di offrire lavoro, di migliorare la tecnica e favorire il progresso scientifico; per raggiungere i quali la grande società per azioni se ne associa o ne affilia altre formando un gruppo, destina l’utile della propria attività agli investimenti e alle ricerche, si espande sempre più per pervenire alla dimensione ideale.
I piccoli azionisti rappresentano il maggiore ostacolo all’assolvimento di tali funzioni. Mossi dall’istinto del lucro personale, essi fanno valere i diritti concessigli dalla legge per realizzare il loro interesse al guadagno immediato, cui esigono sia sacrificato l’interesse generale. Così, pretendono la ripartizione di utili che, invece, sarebbe necessario investire per migliorare la produzione; esigono informazioni sugli affari sociali, sebbene tali informazioni possano danneggiare l’impresa e favorire i concorrenti.
L’insegnamento del Rathenau è stato tradotto da giuristi quali – tra gli altri – il Netter ed il Geiler nella teoria dell’Unternehmen an sich, caratterizzata dai seguenti assunti:
– secondo un’accentuata impostazione pubblicistica, la società per azioni, forma giuridica tipica della grande impresa, è un organismo che investe, nella sua struttura e con la sua attività, interessi di vario genere: gli interessi degli azionisti; gli interessi dei lavoratori e dipendenti; gli interessi dei consumatori; l’interesse collettivo allo sviluppo dell’economia nazionale. La società è un ingranaggio di questa economia collettiva, che va oltre l’aspirazione del singolo capitalista al lucro personale, nel nome dell’interesse generale ad una maggiore e migliore produzione;
– l’impresa, in quanto tale, ha un interesse proprio, che si identifica non nella realizzazione del maggior profitto per gli azionisti, ma nella maggiore efficienza produttiva dell’impresa stessa; ciò che giustifica e sorregge la politica dell’autofinanziamento, mezzo necessario al risultato;
– il controllo dell’impresa deve essere affidato ad un organo di amministrazione stabile, quanto più possibile indipendente dalle “mutevoli maggioranze di mutevoli azionisti”;
– gli azionisti hanno un obbligo di fedeltà verso l’impresa; i loro diritti agli utili, all’informazione, all’impugnazione delle delibere assembleari sono riconosciuti e tutelati soltanto in quanto esercitati in conformità al superiore interesse dell’impresa medesima.
Una seconda corrente istituzionalista (F. Marx) fa capo, anziché al concetto di impresa, al concetto di persona giuridica, individuando nella società per azioni un interesse proprio, diverso e superiore a quelli dei soci.
Secondo tale impostazione, l’azionista, così come l’amministratore, quale organo della società, esercita il diritto di voto nell’interesse di questa.
Nelle deliberazioni degli organi sociali, assume rilevanza, unicamente, l’interesse della persona giuridica-società; non rilevano, invece, gli interessi esterni alla società.
Tale teoria pone limiti ristretti al potere della maggioranza azionaria – e dell’organo amministrativo che ne è espressione –, consentendo al giudice, chiamato a pronunciarsi sulla validità di una delibera societaria, di valutare la convenienza obiettiva, per la società, della delibera adottata, e così di annullare le delibere ritenute inopportune.
In questo, detta teoria si differenzia dalla teoria dell’Unternehmen an sich, la quale, invece, concede alla maggioranza massima discrezionalità nella determinazione della politica sociale.
Una terza corrente istituzionalista, riconducibile allo Haussmann, vede confluire nell’impresa una pluralità di soggetti – azionisti, membri degli organi di amministrazione e di controllo, creditori e dipendenti – titolari di un interesse comune, risultante dalla somma o dall’unità dei loro interessi individuali; tali soggetti, collegati nell’impresa, nell’ambito di questa coordinano i loro rispettivi scopi.
Tale teoria si differenzia nettamente dalla teoria dell’Unternehmen an sich, nella misura in cui nega rilevanza all’interesse pubblico nella disciplina societaria, accentuando invece l’importanza dello scopo di lucro dei partecipanti all’impresa, concepito come l’effettivo interesse comune a tutti costoro.
Si differenzia, altresì, dalla dottrina della Person in sich, nella misura in cui consente al socio di perseguire, in sede di deliberazione assembleare, interessi extra-sociali, purché non in danno degli altri azionisti; richiede al membro dell’organo amministrativo di tener conto di diversi interessi esterni alla società, fra cui quelli dei creditori, dei lavoratori e del gruppo.
La teoria istituzionalista dell’Unternehmen an sich, come si è visto, si caratterizza, in particolar modo, per l’affermazione della indipendenza dell’organo amministrativo da quello assembleare e per l’elevazione del primo ad organo centrale della società, vero interprete delle esigenze dell’impresa quale “meccanismo” dell’economia collettiva.
L’ideologia nazista fa proprio tale insegnamento e lo traduce in fondamentale principio del diritto azionario (Führerprinzip).
Così, la teoria dell’Unternehmen an sich viene recepita dall’Aktiengesetz del 1937, fra le cui norme spicca il § 70, il quale impone all’organo amministrativo (Vorstand), sotto la propria responsabilità, di dirigere la società secondo quanto è richiesto dal bene dell’impresa (Wohl des Betriebs) e dei dipendenti di essa (Gefolgschaft) e dall’interesse comune della nazione e del Reich.
Le concezioni contrattualiste muovono dal riconoscimento dei contrasti di interesse all’interno della società e, lungi dal predeterminare il contenuto dell’interesse sociale, vogliono semplicemente predisporre il procedimento per la sua individuazione, affidando in definitiva ai soci la realizzazione dell’interesse comune. Il meccanismo che permette l’individuazione dell’interesse sociale è il principio maggioritario (Mignoli).
L’interesse sociale è definito dalle formulazioni contrattualiste come l’interesse comune dei soci in quanto tali: è interesse al conseguimento dell’utile (scopo primario della società), rispetto al quale l’oggetto sociale si pone in rapporto di mezzo a fine.
Decisiva, nella formulazione del Mignoli, è la norma dell’art. 2247 c.c., per la quale «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili».
Scopo tipico, costante, uniforme del contratto di società è lo scopo di lucro, l’attività economica esercitata (l’oggetto sociale) rappresentando il mezzo necessario allo scopo.
L’interesse sociale altro non è che la tendenza allo scopo e l’adeguamento dei mezzi necessari al suo conseguimento, secondo un procedimento fondato sul principio maggioritario, alla maggioranza dei soci affidando in definitiva la legge l’orientamento da dare ai mezzi che consentono il raggiungimento dello scopo.
A chi ritiene non decisivo l’art. 2247 c.c., essendo compatibili con lo schema causale ivi delineato entrambe le accezioni di interesse sociale, quella relativa alla percezione degli utili periodicamente raggiunti e quella relativa al rafforzamento economico dell’impresa sociale, Mignoli obietta che in realtà unico è l’interesse, quello diretto al raggiungimento dello scopo, l’impresa attenendo non al momento dell’individuazione dell’interesse sociale, ma al momento della valutazione dei mezzi per perseguirlo: l’impresa ha valore funzionale e strumentale, non è scopo (primario) in sé.
Nell’ambito della dottrina contrattualista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse collettivo degli azionisti in quanto tali – si distinguono varie correnti interpretative.
Così, secondo un’opinione, l’interesse sociale deve tener conto della variabilità dei soci nel tempo (è interesse sociale anche l’interesse di coloro che eventualmente, in futuro, potranno divenire soci) e comunque dell’interesse anche non attuale, perché a lungo termine, dei soci attuali.
Altri autori considerano, invece, titolari dell’interesse sociale i soli soci attuali.
Tale interesse viene identificato, da alcuni di tali autori, con l’interesse strumentale a che l’impresa societaria realizzi una massimizzazione dell’utile (Ascarelli); da altri, con l’interesse individuale al conseguimento di utili, per mezzo dell’organizzazione comune allo scopo costituita: interesse finale, tipico del socio in quanto tale, variabile con il mutare dei bisogni dei soci nei diversi momenti della vita della società.
Così, per Mengoni, l’interesse sociale è un concetto essenzialmente relativo, in quanto risulta da una valutazione oggettiva degli interessi particolari di cui sono portatori, in un determinato momento, coloro che partecipano alla società.
Richiamando ancora Mignoli, l’interesse sociale è un interesse soltanto in astratto predeterminato, come interesse alla realizzazione dell’utile comune a tutti i soci (art. 2247 c.c.); esso non condiziona l’agire degli organi sociali. Questi stessi sono chiamati ad individuare l’interesse sociale ed a valutare scelte e mezzi concreti per attuarlo. A tal fine la legge predispone un procedimento, governato dal principio maggioritario.
In tale quadro, il socio non ha un obbligo, né giuridico, né morale, di perseguire l’interesse sociale.
La norma dell’art. 2373 c.c. pone un limite (esterno) all’esercizio del diritto di voto da parte del socio, il quale è libero di perseguire interessi anche extra-sociali, purché da ciò non derivi danno alla società.
Funzione della norma è, infatti, quella di impedire che il principio maggioritario si trasformi in strumento di sopraffazione della maggioranza sulla minoranza.
La teoria contrattualista dell’interesse sociale trova moderna espressione nella teoria dello shareholder value, la quale identifica l’interesse sociale con l’aumento del valore reale delle azioni.
La teoria economica – si è osservato – pone come obiettivo della gestione sociale quello di massimizzare il valore attuale delle azioni. Questo obiettivo non necessariamente si identifica con la massimizzazione degli utili; agli investitori interessano i flussi di cassa che l’investimento azionario potrà generare nel tempo. La qualità della gestione viene misurata in termini di valore creato, più che di utili (di bilancio); il che non significa che tra i due concetti vi sia contrapposizione.
Ciò consiglia una lettura dello scopo sociale, come definito dall’art. 2247 c.c., in termini di massimizzazione del valore degli azionisti. Il riferimento agli utili da dividere tra i soci va inteso nel senso, più generale, di un interesse comune dei soci alla massimizzazione delle utilità economiche loro derivanti dall’investimento azionario; che poi si riflettono, in ciascun momento, nel valore attuale delle azioni.
Lo shareholder value, nei moderni codici di comportamento, rappresenta il principio guida dell’azione degli amministratori.
Così, secondo il vigente codice di autodisciplina delle società quotate, «gli amministratori agiscono e deliberano con cognizione di causa ed in autonomia, perseguendo l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti» (1.P.2.).
Lo shareholder value, quale massimizzazione del profitto derivante dall’investimento azionario, viene individuato e definito nell’ambito di una prospettiva di medio-lungo periodo, secondo criteri specifici, che hanno riguardo non solo alla performance dell’azienda societaria, ma anche alle strutture del governo societario. In quest’ultima prospettiva, vengono presi in considerazione ulteriori elementi, come i criteri di remunerazione del management, che incidono sul valore delle azioni.
Secondo l’attuale codice di corporate governance del Regno Unito, l’organo amministrativo ha il compito di promuovere il successo della società in una prospettiva di lungo periodo («Every company should be headed by an effective board which is collectively responsible for the long-term success of the company» – UK Corporate Governance Code 2010, A.1, Main Principle). A tale fine, assume rilievo la struttura della remunerazione degli amministratori: «Levels of remuneration should be sufficient to attract, retain and motivate directors of the quality required to run the company successfully, but a company should avoid paying more than is necessary for this purpose. A significant proportion of executive directors’ remuneration should be structured so as to link rewards to corporate and individual performance» (D.1, Main Principle). «The performance-related elements of executive directors’ remuneration should be stretching and designed to promote the long-term success of the company» (D.1, Supporting Principle).
Lo scopo della creazione del valore viene esteso dal codice di corporate governance tedesco agli interessi degli stakeholders : «Der Vorstand leitet das Unternehmen in eigener Verantwortung im  Unternehmensinteresse, also unter Berücksichtigung der Belange der  Aktionäre, seiner Arbeitnehmer und der sonstigen dem Unternehmen verbundenen Gruppen (Stakeholder) mit dem Ziel nachhaltiger Wertschöpfung» (4.1.1).
L’importanza della nozione di shareholder value ai fini dell’individuazione dell’interesse sociale viene riconosciuta dallo stesso Jaeger. Ritornando sull’argomento, oggetto del suo primo scritto giuridico, l’Autore, alla luce dell’evoluzione della disciplina delle società e dei mercati finanziari (disciplina dell’OPA; dottrina e giurisprudenza in materia di diritto di opzione e di gruppi di società), giunge alle conclusioni seguenti.
La teoria dello shareholder value – identificando l’interesse sociale con l’interesse (esclusivo) dei soci, intesi come gruppo, all’aumento del valore delle proprie azioni – rappresenta, apparentemente, una concezione contrattualista.
Tuttavia, rispetto alle concezioni contrattualiste tradizionali, si deve osservare che:
– l’interesse è dei soci attuali, ma è destinato ad essere soddisfatto pienamente solo con la perdita della qualità di socio, ossia con la cessione delle azioni, attraverso la quale si realizza il loro valore reale;
– poiché il valore delle azioni tende a dipendere dal valore dell’impresa azionaria, non si comprende, allora, quale sia la differenza tra l’interesse alla crescita economica dell’impresa e la shareholder value, che si avvicina, così, alla teoria istituzionalista dell’impresa in sé.
Si deve allora prendere atto che, recependo argomenti tanto dalla teoria contrattualista, quanto da quella istituzionalista dell’interesse sociale, la teoria dello shareholder value realizza il superamento di entrambe tali teorie.
Alla luce dell’attuale disciplina della società per azioni, risultante dalla riforma del 2003, disciplina caratterizzata dalla centralità dell’impresa e dalle esigenze legate al suo finanziamento, è evidente l’inadeguatezza dell’impostazione tradizionale, fondata sulla contrapposizione tra teoria contrattualista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse dei soci n quanto tali – e teoria istituzionalista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse dell’impresa in sé.
Nell’attuale sistema, invero, assume rilevanza una pluralità di interessi, inerenti ai diversi tipi di finanziamento, attraverso cui sono tratte le risorse necessarie allo svolgimento dell’impresa.
A tali, molteplici, interessi, attinenti alla struttura finanziaria della società per azioni, si riconosce, in diversa misura, rilevanza sociale.
L’emissione, da parte della società, di una pluralità di tipologie di azioni, obbligazioni e strumenti finanziari comporta il sorgere di potenziali conflitti orizzontali, ossia di conflitti di interesse tra diverse categorie di finanziatori/investitori.
Alla gestione di tali conflitti provvede la legge ed, eventualmente, in via preventiva, lo statuto sociale, attraverso clausole che realizzino una oculata modulazione dei diritti di voto e di partecipazione accordati alle varie categorie, anche con riferimento alla nomina e alla composizione degli organi di amministrazione e di controllo (vds. art. 2351, ult. comma, c.c.; art. 2387 c.c.).
Coerentemente, in una società a struttura finanziaria complessa, l’azione degli amministratori dovrà tendere alla massimizzazione del risultato economico complessivo (creazione di valore), a vantaggio dell’insieme delle varie categorie di finanziatori.