Divieto di concorrenza nelle società di persone

Codice civile, Art. 2301.

Il socio non può, senza il consenso degli altri soci, esercitare per conto proprio o altrui una attività concorrente con quella della società, né partecipare come socio illimitatamente responsabile ad altra società concorrente.

Il consenso si presume, se l’esercizio dell’attività o la partecipazione ad altra società preesisteva al contratto sociale, e gli altri soci ne erano a conoscenza.

In caso d’inosservanza delle disposizioni del primo comma la società ha diritto al risarcimento del danno, salva l’applicazione dell’art. 2286.

Nella società in nome collettivo a ciascun socio fa carico l’obbligo di non concorrenza. Il socio in nome collettivo non può esercitare per conto proprio o altrui un’attività concorrente con quella della società e neppure partecipare, come socio illimitatamente responsabile, ad altra società concorrente.

L’obbligo non è esclusivo della società in nome collettivo: la norma si applica ai soci accomandatari di società in accomandita semplice; analogo divieto è posto a carico degli amministratori di società per azioni (art. 2390 c.c.). Si è, inoltre, ritenuto che il divieto di concorrenza possa essere esteso ai soci di società semplice, nei limiti, peraltro, in cui concorrenza possa nella specie spiegarsi: cioè limitatamente a quelle attività agricole per connessione (cfr. art. 2135, commi 2° e 3°, c.c.), in cui sia possibile uno sviamento di clientela (arg. ex art. 2557, ultimo comma, c.c.).

Al socio non è vietato di esercitare qualsiasi attività commerciale, ma soltanto di esercitare un’attività che sia concorrente con quella della società. La norma vuole impedire che la società subisca danno dall’uso che il socio faccia a profitto esclusivo proprio o altrui delle notizie e delle conoscenze acquisite al suo interno. Ed indirettamente spinge ciascuno ad impiegare le proprie energie ed abilità nell’interesse comune.

Al socio è consentito lo svolgimento di altra attività di impresa, ed anche lo svolgimento della medesima attività della società quando, in relazione alle circostanze, debba escludersi l’esistenza di un rapporto concorrenziale. E’ altresì ammessa la partecipazione ad altra società concorrente con assunzione di responsabilità limitata.

Il divieto viene meno se risulta il consenso degli altri soci, anche presunto: in base, cioè, alla conoscenza che essi hanno dell’esercizio dell’attività concorrente, o della partecipazione ad altra società concorrente, quando l’uno o l’altra preesistono al contratto sociale.

L’obbligo sussiste anche nella fase di liquidazione della società.

Il divieto presuppone la qualità di socio. Non può essere affermata, in base a questa norma, l’esistenza di un obbligo di non concorrenza a carico del socio che abbia ceduto la propria quota sociale, del socio receduto o del socio escluso.

E’ dubbio se a costoro possa essere estesa la norma dell’art. 2557 c.c. che pone l’obbligo di non concorrenza dell’alienante l’azienda. Si è fatto notare che con la liquidazione della quota o con il prezzo della cessione della quota il socio realizza una quota proporzionale del valore di avviamento dell’azienda sociale; perciò se egli, dopo l’uscita dalla società, iniziasse una attività in concorrenza idonea a pregiudicare l’avviamento dell’azienda sociale non farebbe che riprendersi ciò che ha trasferito e per cui ha ricevuto un corrispettivo. In ciò si è trovata la ragione per l’applicazione analogica della norma dell’art. 2557 c.c., la quale vieta all’alienante l’azienda di fare concorrenza sul presupposto che nell’alienazione una parte del prezzo pagato dall’acquirente rappresenti il valore attribuito all’avviamento.

 

 

Amministratori di minoranza ed amministratori indipendenti nella s.p.a. quotata

Amministratore di minoranza

Con la legge n. 262/2005 sulla tutela del risparmio il legislatore italiano ha reso obbligatorio il voto di lista per l’elezione degli organi di amministrazione delle società quotate, al fine di assicurare la possibilità che almeno un amministratore sia espressione della «minoranza».

L’art. 147-ter t.u.f., introdotto dalla citata legge n. 262/2005, a seguito delle modifiche apportate con d.lgs. n. 303/2006, così dispone:

«Lo statuto prevede che i componenti del consiglio di amministrazione siano eletti sulla base di liste di candidati e determina la quota minima di partecipazione richiesta per la presentazione di esse, in misura non superiore a un quarantesimo del capitale sociale o alla diversa misura stabilita dalla Consob con regolamento tenendo conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate. Le liste indicano quali sono gli amministratori in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti dalla legge e dallo statuto. Lo statuto può prevedere che, ai fini del riparto degli amministratori da eleggere, non si tenga conto delle liste che non hanno conseguito una percentuale di voti almeno pari alla metà di quella richiesta dallo statuto per la presentazione delle stesse.

1-bis. Le liste sono depositate presso l’emittente entro il venticinquesimo giorno precedente la data dell’assemblea chiamata a deliberare sulla nomina dei componenti del consiglio di amministrazione e messe a disposizione del pubblico presso la sede sociale, sul sito Internet e con le altre modalità previste dalla Consob con regolamento almeno ventuno giorni prima della data dell’assemblea. La titolarità della quota minima di partecipazione prevista dal comma 1 è determinata avendo riguardo alle azioni che risultano registrate a favore del socio nel giorno in cui le liste sono depositate presso l’emittente. La relativa certificazione può essere prodotta anche successivamente al deposito purché entro il termine previsto per la pubblicazione delle liste da parte dell’emittente.

2. …omissis

3. Salvo quanto previsto dall’articolo 2409-septiesdecies del codice civile, almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione è espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti. Nelle società organizzate secondo il sistema monistico, il componente espresso dalla lista di minoranza deve essere in possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza determinati ai sensi dell’articolo 148, commi 3 e 4. Il difetto dei requisiti determina la decadenza dalla carica.

4. In aggiunta a quanto disposto dal comma 3, almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ovvero due se il consiglio di amministrazione sia composto da più di sette componenti, devono possedere i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’articolo 148, comma 3, nonché, se lo statuto lo prevede, gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria. Il presente comma non si applica al consiglio di amministrazione delle società organizzate secondo il sistema monistico, per le quali rimane fermo il disposto dell’articolo 2409-septiesdecies, secondo comma, del codice civile. L’amministratore indipendente che, successivamente alla nomina, perda i requisiti di indipendenza deve darne immediata comunicazione al consiglio di amministrazione e, in ogni caso, decade dalla carica.»

Il meccanismo del voto di lista nell’elezione alle cariche sociali non rappresenta una novità assoluta nel nostro ordinamento.

Già con la legge n. 474/1994, il legislatore aveva previsto che negli statuti delle società operanti in settori di importanza strategica, già controllate dallo Stato ed oggetto di privatizzazione secondo le previsioni della stessa legge, nei cui statuti fosse previsto un limite di possesso azionario, fosse introdotta apposita clausola per l’elezione degli amministratori mediante voto di lista.

Ulteriore precedente è rappresentato dall’art. 148, comma 2, t.u.f., in tema di elezione del collegio sindacale nelle società quotate.

Si ritiene, inoltre, che il voto di lista possa essere liberamente introdotto in via statutaria, in virtù della previsione dell’art. 2368, comma 1, c.c., che consente ai soci di stabilire modalità particolari per la nomina alle cariche sociali.

Pur rappresentando una deroga al principio assembleare maggioritario, tale sistema di votazione, infatti, non viola il disposto del dell’art. 2383, comma 1, c.c., nella parte in cui prevede l’esclusiva competenza dell’assemblea alla nomina degli amministratori; né il citato art. 2368 c.c., che sancisce l’esclusiva competenza assembleare in tema di nomina degli amministratori e la necessaria unità del procedimento assembleare.

Il metodo del voto di lista prevede, nella sua formulazione tradizionale, la presentazione di due o più liste di candidati da parte dei soci e l’elezione in consiglio di un numero di rappresentanti proporzionale al numero di voti espressi rispettivamente dalla maggioranza e dalla minoranza.

L’applicazione di tale sistema di votazione – come è stato osservato – di per sé non assicura la presenza nel consiglio di un amministratore di minoranza. E ciò proprio perché, in quanto tecnica di votazione, esso non si presta a determinarne l’esito, che dipende invece da una molteplicità di variabili.

Pertanto, in sede di adeguamento statutario, affinché sia realizzato il risultato voluto dal legislatore, la clausola che introduca il voto di lista dovrà essere integrata da una ulteriore previsione statutaria che consenta di predefinire l’esito della votazione, escludendo in via di principio la possibilità che la lista risultata prima per numero di voti esprima tutti gli amministratori, e ciò quand’anche sulla base dei quozienti individuali conseguiti dai suoi candidati essa avesse titolo per vedersi assegnata la totalità dei seggi.

Con la disposizione in commento, il legislatore non garantisce che nel consiglio di amministrazione di ogni società quotata sia presente almeno un amministratore di minoranza. Semplicemente, crea le condizioni affinché una minoranza azionaria qualificata possa eleggere un proprio esponente a comporre il consiglio di amministrazione.

A tal fine, la minoranza deve saper organizzarsi per la presentazione di una lista concorrente con quella che, per essere presentata dai soci di riferimento, sarà qualificabile come lista di minoranza.

Fin qui si è parlato di minoranza; ma non è escluso che più minoranze (più gruppi di minoranza) riescano autonomamente ad organizzarsi per la presentazione di distinte liste (di minoranza) concorrenti con la lista di maggioranza. Fermo restando che nel consiglio di amministrazione potrà sedere soltanto un amministratore di minoranza (proveniente dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti).

Onde prevenire azioni di disturbo o ricattatorie da parte di azionisti titolari di partecipazioni trascurabili, la legge affida allo statuto sociale la determinazione della quota minima di partecipazione al di sotto della quale non è consentita la presentazione di liste di candidati alla carica di amministratore, stabilendo la misura massima di tale soglia; misura derogabile dalla Consob sulla base di parametri oggettivi, indicati dalla stessa legge.

Precisamente, l’art. 147-ter t.u.f. prevede che la quota minima di partecipazione richiesta per la presentazione delle liste non può essere superiore al quarantesimo del capitale sociale (2,5%) o alla diversa misura stabilita dalla Consob con regolamento, tenendo conto della capitalizzazione, del flottante e degli assetti proprietari delle società quotate.

La Consob deve ritenersi autorizzata ad intervenire sia aumentando, sia riducendo la percentuale in oggetto.

Ed, infatti, in attuazione della norma primaria, la Commissione di controllo ha così disposto (art. 144-quater del Regolamento n. 11971/1999 concernente la disciplina degli emittenti, come recentemente modificato):

1. Salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione richiesta per la presentazione delle liste di candidati per l’elezione del consiglio di amministrazione ai sensi dell’articolo 147-ter del Testo unico:

a) è pari allo 0,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro quindici miliardi;

b) è pari all’1% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro tre miliardi e settecentocinquanta milioni e inferiore o uguale a euro quindici miliardi;

c) è pari all’1,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro un miliardo e ottocentosettantacinque milioni e inferiore o uguale a euro tre miliardi e settecentocinquanta milioni;

d) è pari al 2% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro settecentocinquanta milioni e inferiore o uguale a euro un miliardo e ottocentosettantacinque milioni;

e) è pari al 2,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è maggiore di euro trecentosettantacinque milioni e inferiore o uguale a euro settecentocinquanta milioni.

2. Salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione è pari al 4,5% del capitale sociale per le società la cui capitalizzazione di mercato è inferiore o uguale a euro trecentosettantacinque milioni ove, alla data di chiusura dell’ esercizio, ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:

– il flottante sia superiore al 25%;

– non vi sia un socio o più soci aderenti ad un patto parasociale previsto dall’articolo 122 del Testo unico che dispongano della maggioranza dei diritti di voto esercitabili nelle deliberazioni assembleari che hanno ad oggetto la nomina dei componenti degli organi di amministrazione.

Ove non ricorrano le suddette condizioni, salva la minore percentuale prevista nello statuto, la quota di partecipazione è pari al 2,5% del capitale sociale.

3. Per le società cooperative la quota di partecipazione è pari allo 0,5% del capitale sociale, salva la minore percentuale prevista nello statuto.

4. Fermo restando quanto stabilito al comma 3, gli statuti delle società cooperative debbono consentire la presentazione delle liste anche ad un numero minimo di soci, comunque non superiore a cinquecento, indipendentemente dalla percentuale di capitale sociale complessivamente detenuta.

Opportunamente, colmando il vuoto lasciato sul punto dal legislatore, la Consob ha chiarito che, ai fini della determinazione della quota di partecipazione utile alla presentazione delle liste, per capitale sociale debba intendersi il “capitale costituito dalle azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea che attribuiscono diritti di voto nelle deliberazioni assembleari che hanno ad oggetto la nomina dei componenti degli organi di amministrazione e controllo”.

La previsione, rilevante nel caso in cui la società abbia emesso azioni di categorie diverse, stabilisce un collegamento tra la legittimazione alla presentazione delle liste ed il possesso di una quota minima di azioni con diritto di voto sulla nomina dei componenti dell’organo di amministrazione. Essa ha la funzione di assicurare ai candidati della minoranza la possibilità di essere sostenuti in sede di votazione assembleare dagli stessi soci che li hanno proposti alla carica di amministratore ed è coerente con la disposizione, introdotta con il d.lgs. n. 303/2006, che consente allo statuto sociale di prevedere un quorum minimo per l’elezione degli amministratori di minoranza. Così infatti stabilisce l’art. 147-ter, comma 1, ultimo periodo, t.u.f.:

Lo statuto può prevedere che, ai fini del riparto degli amministratori da eleggere, non si tenga conto delle liste che non hanno conseguito una percentuale di voti almeno pari alla metà di quella richiesta dallo statuto per la presentazione delle stesse”.

Nell’attuare la norma che prevede il voto di lista per l’elezione dei componenti dell’organo di amministrazione, con la possibilità per la minoranza di eleggere un proprio rappresentante in seno al consiglio, i soci hanno, dunque, in sede statutaria, entro i limiti fissati dal legislatore, due diversi strumenti per assicurarsi che l’amministratore di minoranza sia espressione di una quota significativa del capitale sociale: 1) determinazione di una quota di sbarramento per la presentazione delle liste; 2) determinazione di un quorum minimo di voti per l’elezione dell’amministratore di minoranza.

Ai fini dell’art. 147-ter, comma 3, t.u.f., una lista di minoranza è tale e può concorrere all’elezione del consiglio di amministrazione quando “non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, ai soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti”.

La nozione di collegamento, rilevante ai fini della norma, in assenza di indicazioni del legislatore, deve essere ricavata dal sistema.

Al riguardo, si è suggerito il ricorso ad altre nozioni, previste dalla disciplina dei mercati finanziari, normalmente utilizzate per presumere unità di intenti tra soggetti formalmente distinti, quali la nozione di azione di concerto di cui all’art. 109 t.u.f., quella di «parti correlate» prevista dall’art. 71-bis del Regolamento Emittenti e, a fini diversi, dall’art. 2391-bis c.c.

Considerata l’affinità della materia regolata, appare, altresì, legittimo il riferimento alla disciplina già dettata dalla Consob in via regolamentare per l’elezione del sindaco di minoranza ai sensi dell’art. 148, comma 2, t.u.f.

Al riguardo, così dispone l’art. 144-quinquies del Regolamento emittenti:

1. Sussistono rapporti di collegamento rilevanti ai sensi dell’articolo 148, comma 2, del Testo unico, fra uno o più soci di riferimento e uno o più soci di minoranza, almeno nei seguenti casi:

a) rapporti di parentela;

b) appartenenza al medesimo gruppo;

c) rapporti di controllo tra una società e coloro che la controllano congiuntamente;

d) rapporti di collegamento ai sensi dell’articolo 2359, comma 3 del codice civile, anche con soggetti appartenenti al medesimo gruppo;

e) svolgimento, da parte di un socio, di funzioni gestorie o direttive, con assunzione di responsabilità strategiche, nell’ambito di un gruppo di appartenenza di un altro socio;

f) adesione ad un medesimo patto parasociale previsto dall’articolo 122 del Testo unico avente ad oggetto azioni dell’emittente, di un controllante di quest’ultimo o di una sua controllata.

2. Qualora un soggetto collegato ad un socio di riferimento abbia votato per una lista di minoranza l’esistenza di tale rapporto di collegamento assume rilievo soltanto se il voto sia stato determinante per l’elezione del sindaco.

Si potranno, dunque, ritenere liste collegate e perciò inidonee a concorrere all’elezione dell’organo amministrativo quelle presentate o votate dagli stessi soci che hanno presentato votato la lista risultata prima per numero di voti, o da loro parenti, o da soggetti ad essi legati da rapporti di controllo o di collegamento anche indiretto, o dagli rapporti sopra indicati, considerati rilevanti dalla Consob ai fini dell’applicazione dell’art. 148, comma 2, t.u.f.

Con la precisazione che il collegamento tra un socio che abbia votato per una lista di minoranza ed un socio di riferimento è rilevante soltanto se il suo voto è stato determinante per l’elezione dell’amministratore (prova di resistenza): un voto non determinante, infatti, non nuocerebbe alla legittimazione della lista quale espressione della minoranza.  

Infine, deve ritenersi estensibile alla materia dell’elezione del consiglio di amministrazione il divieto, previsto dalla Consob in tema di elezione del collegio sindacale, del voto divergente (v. art. 144-sexies, comma 6, t.u.f.: “Un socio non può presentare né votare più di una lista, anche se per interposta persona o per il tramite di società fiduciarie. I soci appartenenti al medesimo gruppo e i soci che aderiscano ad un patto parasociale avente ad oggetto azioni dell’emittente non possono presentare o votare più di una lista, anche se per interposta persona o per il tramite di società fiduciarie”).

Se fosse ammesso il voto divergente, infatti, ai soci di riferimento sarebbe consentito escludere le liste di minoranza non gradite, semplicemente votando per le stesse con parte del proprio pacchetto azionario.

La rappresentanza della minoranza nell’organo amministrativo delle società quotate realizza un principio di democrazia nel governo di tali società, estendendo alla gestione della società il dibattito tra diverse “fazioni” sociali, proprio dell’assemblea.

L’amministratore di minoranza è per definizione “indipendente” dai soci di riferimento della società e degli amministratori che ne sono espressione.

Egli è chiamato a dar voce, nel consiglio, alle istanze degli azionisti che lo hanno eletto, svolgendo anche una funzione di controllo sull’operato degli amministratori esecutivi eletti dalla maggioranza assembleare.

L’amministratore espressione della minoranza è comunque soggetto agli obblighi gravanti in forza di legge e del contratto sociale, in generale, sugli amministratori della società, primo fra tutti il dovere del perseguimento dell’interesse sociale.

Scopo di questa indagine è scoprire in che modo questi compiti, distinti ed apparentemente antitetici (rappresentanza degli interessi degli elettori, da un lato; perseguimento dell’interesse della società nel suo insieme, dall’altro), possano conciliarsi nello svolgimento dell’attività sociale.

Amministratore indipendente

Si è detto che l’amministratore di minoranza, in quanto tale, è indipendente dal socio o dal gruppo di soci che controllano la società, detenendo la maggioranza delle azioni, e così degli amministratori espressi dalla maggioranza: la mancanza di collegamento tra lista di minoranza e soci di riferimento, richiesta dal legislatore ai fini dell’ammissione della lista di minoranza alla competizione per l’elezione dell’organo amministrativo, assicura tale indipendenza.

L’amministratore di minoranza non è, tuttavia, qualificabile come indipendente ai fini dell’applicazione delle norme, sempre più numerose, che esigono la presenza di «amministratori indipendenti» in seno all’organo amministrativo.

Ci si riferisce, in primo luogo, alle norme del codice civile dedicate al sistema monistico di amministrazione e controllo, che prevedono la costituzione, all’interno del consiglio di amministrazione, di un comitato per il controllo sulla gestione, composto di amministratori indipendenti, ed a tal fine richiedono che almeno un terzo dei membri del consiglio di amministrazione siano in possesso dei requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’art. 2399 c.c. e, se lo statuto lo prevede, di quelli al riguardo stabiliti da codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati.

In secondo luogo, si ha riguardo all’art. 147-ter, comma 4, t.u.f., introdotto dalla legge n. 262/2005 sulla tutela del risparmio, a norma del quale, in aggiunta a quanto disposto dal comma 3 in tema di amministratori di minoranza, “almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ovvero due se il consiglio di amministrazione sia composto da più di sette componenti, devono possedere i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’articolo 148, comma 3, nonché, se lo statuto lo prevede, gli ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria.

Ci si riferisce, in terzo luogo, alle disposizioni del Codice di autodisciplina delle società quotate, che prescrivono che un numero adeguato di amministratori non esecutivi siano indipendenti e prevedono la costituzione di comitati interni al consiglio di amministrazione, composti, in maggioranza, da amministratori indipendenti, per la trattazione di materie quali la nomina degli amministratori, la remunerazione degli stessi, il controllo interno sulla gestione.

La figura dell’amministratore indipendente rappresenta, a livello nazionale e sovranazionale, uno degli strumenti attraverso i quali il legislatore, da un lato, gli organismi privati di governo del mercato, dall’altro, mirano a garantire la corretta gestione delle società quotate, a tutela degli investitori attuali e potenziali.

Per indipendenza, in questo contesto, s’intende l’assenza di un conflitto di interessi rilevante, o anche l’autonomia di giudizio di un amministratore, privo di incarichi esecutivi, ed equidistante dagli interessi dei soggetti coinvolti nella gestione della società.

L’amministratore indipendente, secondo questa impostazione, ha la funzione di vigilare sulla condotta degli amministratori esecutivi, prevenendo il sorgere di conflitti di interessi, a tutela di tutti gli azionisti.

I codici di autodisciplina normalmente individuano alcune materie particolarmente delicate, in quanto potenziali fonti di conflitti di interesse, e prevedono la costituzione di comitati interni al consiglio di amministrazione, composti in maggioranza da amministratori indipendenti, per la trattazione di tali materie. Generalmente, è prevista la costituzione di comitati per la nomina degli amministratori, per la remunerazione degli stessi, per la revisione dei conti e/o il controllo interno.

Normalmente, dell’amministratore indipendente viene data una definizione in negativo: si individuano, cioè, situazioni e rapporti in presenza dei quali un amministratore non può considerarsi indipendente. Si prescrive, inoltre, una continua valutazione del requisito dell’indipendenza, la cui perdita comporta la decadenza dell’amministratore dalla carica.

La figura dell’amministratore indipendente è stata introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento normativo con la riforma delle società di capitali e cooperative del 2003, quando si è previsto, quale possibile modello di governo della società per azioni, il sistema monistico di amministrazione e controllo.

Carattere peculiare del sistema monistico è la presenza, all’interno del consiglio di amministrazione, di un comitato per il controllo sulla gestione, con funzioni sostanzialmente analoghe a quelle proprie del collegio sindacale nelle società organizzate secondo il modello tradizionale.

Il comitato per il controllo sulla gestione è costituito dallo stesso consiglio di amministrazione, che ne sceglie al proprio interno i componenti, i quali devono essere in possesso dei requisiti di indipendenza previsti dal codice civile per i membri del collegio sindacale e, se lo statuto lo prevede, di quelli al riguardo previsti da associazioni di categoria o da società di gestione dei mercati regolamentati.

A tal fine, è previsto che almeno un terzo dei componenti del consiglio di amministrazione – i quali sono nominati, come di consueto, dall’assemblea – siano indipendenti, nel senso sopra precisato.

Gli amministratori indipendenti, previsti dalla disciplina del sistema monistico di amministrazione e controllo – sistema adottabile anche da società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio –, sono funzionali a tale particolare modello di governo della società, in cui il controllo sull’amministrazione è affidato a soggetti facenti parte dello stesso consiglio di amministrazione, i quali, per la funzione svolta, devono poter godere della fiducia di tutti gli azionisti della società e del mercato in generale: fiducia che, secondo il giudizio del legislatore, dovrà essere loro accordata se in possesso di requisiti di indipendenza almeno equivalenti a quelli stabiliti per i componenti del collegio sindacale.

Con la legge sulla tutela del risparmio – si è detto – la presenza di almeno un amministratore indipendente nel consiglio di amministrazione (due se il consiglio è formato da più di sette membri) è divenuta obbligatoria per tutte le società quotate. 

Si deve far notare che, alla sua entrata in vigore, la norma era già ampiamente rispettata dalle società per azioni quotate che avessero modellato la propria governance in conformità alle previsioni (non vincolanti) del Codice di Autodisciplina delle società quotate.

Questo, invero, già nella sua versione del 2002, prevedeva che un numero adeguato di amministratori esecutivi fossero indipendenti; prevedeva, altresì, che all’interno del consiglio di amministrazione fosse costituito, tra gli altri, un comitato per il controllo interno, con funzioni consultive e propositive, composto da amministratori non esecutivi, la maggioranza dei quali indipendenti.

L’attuale versione Codice di Autodisciplina delle società quotate dedica l’art. 3 agli amministratori indipendenti, stabilendo i seguenti principi:

3.P.1. Un numero adeguato di amministratori non esecutivi sono indipendenti, nel senso che non intrattengono, né hanno di recente intrattenuto, neppure indirettamente, con l’emittente o con soggetti legati all’emittente, relazioni tali da condizionarne attualmente l’autonomia di giudizio.

3.P.2. L’indipendenza degli amministratori è periodicamente valutata dal consiglio di amministrazione. L’esito delle valutazioni del consiglio è comunicato al mercato.

Il commento alla norma del Comitato per la Corporate Governance di Borsa Italiana S.p.A. – cui sono affidati la redazione e l’aggiornamento del Codice – chiarisce ed esplicita il valore ed il ruolo degli amministratori indipendenti nelle società quotate:

L’indipendenza di giudizio è un atteggiamento richiesto a tutti gli amministratori, esecutivi e non esecutivi: l’amministratore consapevole dei doveri e dei diritti connessi alla propria carica opera sempre con indipendenza di giudizio.

In particolare, gli amministratori non esecutivi, non essendo coinvolti in prima persona nella gestione operativa dell’emittente, possono fornire un giudizio autonomo e non condizionato sulle proposte di deliberazione.

Negli emittenti con azionariato diffuso l’aspetto più delicato consiste nell’allineamento degli interessi degli amministratori esecutivi con quelli degli azionisti. In tali emittenti, quindi, prevale un’esigenza di autonomia nei confronti degli amministratori esecutivi.

Negli emittenti con proprietà concentrata, o dove sia comunque identificabile un gruppo di controllo, pur continuando a sussistere la problematica dell’allineamento degli interessi degli amministratori esecutivi con quelli degli azionisti, emerge altresì l’esigenza che alcuni amministratori siano indipendenti anche dagli azionisti di controllo o comunque in grado di esercitare un’influenza notevole.

La qualificazione dell’amministratore non esecutivo come indipendente non esprime un giudizio di valore, bensì indica una situazione di fatto: l’assenza, come recita il principio, di relazioni con l’emittente, o con soggetti ad esso legati, tali da condizionare attualmente, per la loro importanza da valutarsi in relazione al singolo soggetto, l’autonomia di giudizio ed il libero apprezzamento dell’operato del management.

Nei criteri applicativi sono indicate alcune delle più comuni fattispecie sintomatiche di assenza di indipendenza. Esse non sono esaustive, né vincolanti per il consiglio di amministrazione, che potrà adottare, ai fini delle proprie valutazioni, criteri aggiuntivi o anche solo parzialmente diversi da quelli sopra indicati, dandone adeguata e motivata comunicazione al mercato. Il collegio sindacale, nell’ambito della vigilanza sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario, è chiamato a verificare la corretta applicazione dei criteri adottati dal consiglio e delle procedure di accertamento da esso utilizzate. Tali procedure fanno riferimento alle informazioni fornite dai singoli interessati o comunque a disposizione dell’emittente, non essendo richiesta a quest’ultimo un’apposita attività di indagine volta ad individuare eventuali relazioni rilevanti.

Quando il consiglio ritenga sussistere, in concreto, il requisito dell’indipendenza pur in presenza di situazioni astrattamente riconducibili ad ipotesi considerate di non indipendenza – ad esempio, definendo un rapporto commerciale come non significativo in relazione al suo valore economico – sarà sufficiente comunicare al mercato l’esito della valutazione, fermo restando il controllo dei sindaci sulla adeguatezza della relativa motivazione.

… omissis…

Il Codice richiede la valutazione periodica dell’indipendenza degli amministratori da parte dello stesso consiglio di amministrazione, che dà comunicazione al mercato dell’esito delle valutazioni.

Al riguardo, si deve segnalare una recente raccomandazione che il Comitato per la Corporate Governance, in occasione del recepimento delle raccomandazioni formulate dalla Commissione Europea in materia di remunerazione degli amministratori, che ha comportato la modifica dell’art. 7 del Codice, ha ritenuto di rivolgere al mercato:

Il Comitato per la Corporate Governance raccomanda alle società che aderiscono al Codice di Autodisciplina di inserire nei comunicati diffusi al mercato dopo le nomine deliberate nelle prossime assemblee dell’esercizio 2010 alcune informazioni sulle valutazioni dei consigli di amministrazione in merito ai requisiti di indipendenza. In particolare, il Comitato raccomanda alle predette società di illustrare nei comunicati che riportano l’esito delle proprie valutazioni in merito all’indipendenza degli amministratori:

– se siano stati adottati e, in tal caso, con quale motivazione, parametri di valutazione differenti da quelli indicati nel Codice, anche con riferimento a singoli amministratori;

– i criteri quantitativi e/o qualitativi eventualmente utilizzati per valutare la significatività dei rapporti oggetto di valutazione”.

L’attuale Codice di Autodisciplina, in linea con i principi di best practice internazionale e con le indicazioni della Commissione Europea, mantiene le disposizioni che prevedono l’istituzione di comitati interni al consiglio di amministrazione, per la gestione materie costituenti potenziali fonti di  conflitti di interesse. In tali comitati, gli amministratori indipendenti hanno un ruolo preminente.

Ed, invero, è prescritta la costituzione di un comitato per la remunerazione, composto da amministratori esecutivi, la maggioranza dei quali indipendenti; è altresì prescritta la costituzione di un comitato per il controllo interno, composto da amministratori esecutivi, la maggioranza dei quali indipendenti; gli emittenti sono, infine, chiamati a valutare se sia utile costituire, nell’ambito del consiglio di amministrazione, un comitato per le nomine, composto, in maggioranza, da amministratori indipendenti.

Come noto il Codice di Autodisciplina, strumento di autoregolamentazione, non ha forza vincolante per gli emittenti, i quali, per legge, sono tenuti, unicamente, ad informare il mercato sulla propria “adesione ad un codice di comportamento in materia di governo societario promosso da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria, motivando le ragioni dell’eventuale mancata adesione ad una o più disposizioni” (comply or explain) (art. 123-bis, comma 2, t.u.f.).

L’art. 147-ter, comma 4, t.u.f., introdotto dal d.lgs. n. 303/2006 in materia di amministratori indipendenti, ha, pertanto, l’importante funzione di stabilire, grazie al suo valore imperativo, uno standard minimo inderogabile. E costituisce un ulteriore esempio di come la migliore prassi societaria sia in grado di influenzare lo stesso legislatore, che sempre più spesso traduce in norme giuridiche vincolanti regole che gli operatori si sono autoimposti e che si sono dimostrate efficaci nella pratica.

Confronto tra amministratori di minoranza ed amministratori indipendenti

Come detto, amministratori di minoranza ed amministratori indipendenti sono figure distinte, ontologicamente e normativamente.

Invero, lo stesso art. 147-ter, comma 4, t.u.f., prescrive la presenza di amministratori indipendenti in aggiunta a quanto stabilito in tema di voto di lista e di amministratori di minoranza.

L’amministratore di minoranza, in effetti, si qualifica come tale in base alla sua peculiare legittimazione: è – come dice la legge – “il componente del consiglio di amministrazione espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato o votato la lista risultata prima per numero di voti”.

In base alla norma, l’amministratore di minoranza è, dunque, indipendente dai soci di riferimento della società, detentori della maggioranza delle azioni.

Non è tuttavia, in linea di principio, «indipendente» ai sensi dell’art. 147-ter, comma 4, t.u.f., in quanto non è, necessariamente, in possesso dei “requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci dall’articolo 148, comma 3”, né, se lo statuto lo prevede, degli “ulteriori requisiti previsti da codici di comportamento redatti da società di gestione di mercati regolamentati o da associazioni di categoria”.

L’indipendenza, per legge, così come per l’autodisciplina, è l’assenza di significativi rapporti con i soci di maggioranza o con gli amministratori esecutivi, in grado di compromettere l’autonomia di giudizio dell’amministratore.

Così definita, l’indipendenza non è una qualità che la legge richiede all’amministratore di minoranza, il quale, invece, si qualifica come tale per essere eletto da azionisti di minoranza della società.

Tra amministratore indipendente e amministratore di minoranza, figure oggettivamente distinte, è, tuttavia, spesso riconosciuta una certa analogia funzionale.

L’amministratore indipendente è normalmente presentato come strumento di prevenzione dei conflitti di interesse che possono sorgere nello svolgimento dell’attività sociale; egli vigila sull’attività degli amministratori esecutivi e, facendo valere la propria indipendente opinione in sede consiliare, opera, nell’interesse della società, a salvaguardia di tutti i soggetti coinvolti nell’attività sociale, in primis degli azionisti di minoranza, in via di fatto altrimenti impotenti di fronte alle iniziative prese, nel formale rispetto della legge, dagli esecutivi longa manus della maggioranza.

L’amministratore di minoranza è chiamato a dar voce alle istanze dei soci che lo hanno eletto, rappresentando l’interesse di questi ed in tal modo arricchendo il dibattito consiliare; sempre in funzione del miglior perseguimento dell’interesse della società nel suo complesso.

Accomunano, dunque, l’amministratore indipendente e l’amministratore di minoranza: la funzione di controllo dell’operato degli amministratori esecutivi eletti dalla maggioranza assembleare; la “rappresentanza” di interessi altri rispetto a quelli della maggioranza azionaria; la finalizzazione dell’azione al miglior perseguimento dell’interesse sociale.

Amministratore indipendente ed amministratore di minoranza costituiscono, in definitiva, entrambi degli strumenti, tra loro differenti e non necessariamente alternativi – come dimostra l’attuale testo dell’art. 147-ter t.u.f. –, attraverso i quali il legislatore mira a garantire il buon governo della società per azioni quotata, a tutela di tutti gli investitori, attuali e potenziali.

Ora, rappresentando l’interesse sociale – comunque inteso – il principio cardine e la finalità ultima dell’attività di tutti i soggetti investiti di funzioni di amministrazione e di controllo nella società, è evidente che maggiori garanzie, sotto questo profilo, dà l’amministratore indipendente, rispetto all’amministratore di minoranza.

Mentre, infatti, l’amministratore indipendente viene eletto, dall’assemblea degli azionisti, tra soggetti in possesso di particolari requisiti, idonei a garantirne l’autonomia di giudizio, l’amministratore di minoranza è scelto dagli azionisti di minoranza, tra soggetti di cui tali azionisti si fidano. L’amministratore di minoranza è, pertanto, per sua natura “dipendente” dalla minoranza che lo ha eletto.

L’amministratore di minoranza, come tutti gli amministratori, deve perseguire l’interesse sociale. Nondimeno, egli, istituzionalmente, rappresenta gli interessi della minoranza che lo ha eletto. Così come l’amministratore eletto dalla maggioranza assembleare rappresenta gli interessi di quest’ultima.

Il rischio, dunque, ove siano presenti uno o più amministratori di minoranza, è che si moltiplichino i conflitti all’interno della società, con grave danno per la stessa società ed, indirettamente, per il mercato in generale.

Ecco perché, se si vuole garantire il buon governo della società, tra i due strumenti, è senz’altro preferibile l’amministratore indipendente all’amministratore di minoranza.

Interesse sociale nella società per azioni: teoria istituzionalista e teoria contrattualista

Il dibattito sull’interesse sociale storicamente nasce e si sviluppa per dare risposta ai problemi posti dallo sviluppo della grande impresa, prevalentemente organizzata nella forma della società per azioni, nella quale la proprietà è dissociata dal controllo e il potere di pianificazione, devoluto agli organi direttivi, ha i caratteri del potere politico.
In questo quadro, s’impone, nel primo dopoguerra, in Germania, la teoria istituzionalista dell’interesse sociale, la quale afferma la supremazia dell’interesse dell’impresa in sé su qualunque altro e a questo interesse subordina l’interesse degli stessi soci.
Fondatore della teoria istituzionalista viene generalmente considerato Walther Rathenau.
Nella visione di Rathenau, uomo politico, uomo d’affari ed acuto osservatore di problemi, l’impresa di grandi dimensioni si stacca dai soci proprietari e dai loro interessi privati, per assumere rilevanza propria, come elemento dell’economia collettiva. Essa deve essere lasciata libera di perseguire i propri fini, che sono quelli di costruire ricchezza per la comunità, di offrire lavoro, di migliorare la tecnica e favorire il progresso scientifico; per raggiungere i quali la grande società per azioni se ne associa o ne affilia altre formando un gruppo, destina l’utile della propria attività agli investimenti e alle ricerche, si espande sempre più per pervenire alla dimensione ideale.
I piccoli azionisti rappresentano il maggiore ostacolo all’assolvimento di tali funzioni. Mossi dall’istinto del lucro personale, essi fanno valere i diritti concessigli dalla legge per realizzare il loro interesse al guadagno immediato, cui esigono sia sacrificato l’interesse generale. Così, pretendono la ripartizione di utili che, invece, sarebbe necessario investire per migliorare la produzione; esigono informazioni sugli affari sociali, sebbene tali informazioni possano danneggiare l’impresa e favorire i concorrenti.
L’insegnamento del Rathenau è stato tradotto da giuristi quali – tra gli altri – il Netter ed il Geiler nella teoria dell’Unternehmen an sich, caratterizzata dai seguenti assunti:
– secondo un’accentuata impostazione pubblicistica, la società per azioni, forma giuridica tipica della grande impresa, è un organismo che investe, nella sua struttura e con la sua attività, interessi di vario genere: gli interessi degli azionisti; gli interessi dei lavoratori e dipendenti; gli interessi dei consumatori; l’interesse collettivo allo sviluppo dell’economia nazionale. La società è un ingranaggio di questa economia collettiva, che va oltre l’aspirazione del singolo capitalista al lucro personale, nel nome dell’interesse generale ad una maggiore e migliore produzione;
– l’impresa, in quanto tale, ha un interesse proprio, che si identifica non nella realizzazione del maggior profitto per gli azionisti, ma nella maggiore efficienza produttiva dell’impresa stessa; ciò che giustifica e sorregge la politica dell’autofinanziamento, mezzo necessario al risultato;
– il controllo dell’impresa deve essere affidato ad un organo di amministrazione stabile, quanto più possibile indipendente dalle “mutevoli maggioranze di mutevoli azionisti”;
– gli azionisti hanno un obbligo di fedeltà verso l’impresa; i loro diritti agli utili, all’informazione, all’impugnazione delle delibere assembleari sono riconosciuti e tutelati soltanto in quanto esercitati in conformità al superiore interesse dell’impresa medesima.
Una seconda corrente istituzionalista (F. Marx) fa capo, anziché al concetto di impresa, al concetto di persona giuridica, individuando nella società per azioni un interesse proprio, diverso e superiore a quelli dei soci.
Secondo tale impostazione, l’azionista, così come l’amministratore, quale organo della società, esercita il diritto di voto nell’interesse di questa.
Nelle deliberazioni degli organi sociali, assume rilevanza, unicamente, l’interesse della persona giuridica-società; non rilevano, invece, gli interessi esterni alla società.
Tale teoria pone limiti ristretti al potere della maggioranza azionaria – e dell’organo amministrativo che ne è espressione –, consentendo al giudice, chiamato a pronunciarsi sulla validità di una delibera societaria, di valutare la convenienza obiettiva, per la società, della delibera adottata, e così di annullare le delibere ritenute inopportune.
In questo, detta teoria si differenzia dalla teoria dell’Unternehmen an sich, la quale, invece, concede alla maggioranza massima discrezionalità nella determinazione della politica sociale.
Una terza corrente istituzionalista, riconducibile allo Haussmann, vede confluire nell’impresa una pluralità di soggetti – azionisti, membri degli organi di amministrazione e di controllo, creditori e dipendenti – titolari di un interesse comune, risultante dalla somma o dall’unità dei loro interessi individuali; tali soggetti, collegati nell’impresa, nell’ambito di questa coordinano i loro rispettivi scopi.
Tale teoria si differenzia nettamente dalla teoria dell’Unternehmen an sich, nella misura in cui nega rilevanza all’interesse pubblico nella disciplina societaria, accentuando invece l’importanza dello scopo di lucro dei partecipanti all’impresa, concepito come l’effettivo interesse comune a tutti costoro.
Si differenzia, altresì, dalla dottrina della Person in sich, nella misura in cui consente al socio di perseguire, in sede di deliberazione assembleare, interessi extra-sociali, purché non in danno degli altri azionisti; richiede al membro dell’organo amministrativo di tener conto di diversi interessi esterni alla società, fra cui quelli dei creditori, dei lavoratori e del gruppo.
La teoria istituzionalista dell’Unternehmen an sich, come si è visto, si caratterizza, in particolar modo, per l’affermazione della indipendenza dell’organo amministrativo da quello assembleare e per l’elevazione del primo ad organo centrale della società, vero interprete delle esigenze dell’impresa quale “meccanismo” dell’economia collettiva.
L’ideologia nazista fa proprio tale insegnamento e lo traduce in fondamentale principio del diritto azionario (Führerprinzip).
Così, la teoria dell’Unternehmen an sich viene recepita dall’Aktiengesetz del 1937, fra le cui norme spicca il § 70, il quale impone all’organo amministrativo (Vorstand), sotto la propria responsabilità, di dirigere la società secondo quanto è richiesto dal bene dell’impresa (Wohl des Betriebs) e dei dipendenti di essa (Gefolgschaft) e dall’interesse comune della nazione e del Reich.
Le concezioni contrattualiste muovono dal riconoscimento dei contrasti di interesse all’interno della società e, lungi dal predeterminare il contenuto dell’interesse sociale, vogliono semplicemente predisporre il procedimento per la sua individuazione, affidando in definitiva ai soci la realizzazione dell’interesse comune. Il meccanismo che permette l’individuazione dell’interesse sociale è il principio maggioritario (Mignoli).
L’interesse sociale è definito dalle formulazioni contrattualiste come l’interesse comune dei soci in quanto tali: è interesse al conseguimento dell’utile (scopo primario della società), rispetto al quale l’oggetto sociale si pone in rapporto di mezzo a fine.
Decisiva, nella formulazione del Mignoli, è la norma dell’art. 2247 c.c., per la quale «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili».
Scopo tipico, costante, uniforme del contratto di società è lo scopo di lucro, l’attività economica esercitata (l’oggetto sociale) rappresentando il mezzo necessario allo scopo.
L’interesse sociale altro non è che la tendenza allo scopo e l’adeguamento dei mezzi necessari al suo conseguimento, secondo un procedimento fondato sul principio maggioritario, alla maggioranza dei soci affidando in definitiva la legge l’orientamento da dare ai mezzi che consentono il raggiungimento dello scopo.
A chi ritiene non decisivo l’art. 2247 c.c., essendo compatibili con lo schema causale ivi delineato entrambe le accezioni di interesse sociale, quella relativa alla percezione degli utili periodicamente raggiunti e quella relativa al rafforzamento economico dell’impresa sociale, Mignoli obietta che in realtà unico è l’interesse, quello diretto al raggiungimento dello scopo, l’impresa attenendo non al momento dell’individuazione dell’interesse sociale, ma al momento della valutazione dei mezzi per perseguirlo: l’impresa ha valore funzionale e strumentale, non è scopo (primario) in sé.
Nell’ambito della dottrina contrattualista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse collettivo degli azionisti in quanto tali – si distinguono varie correnti interpretative.
Così, secondo un’opinione, l’interesse sociale deve tener conto della variabilità dei soci nel tempo (è interesse sociale anche l’interesse di coloro che eventualmente, in futuro, potranno divenire soci) e comunque dell’interesse anche non attuale, perché a lungo termine, dei soci attuali.
Altri autori considerano, invece, titolari dell’interesse sociale i soli soci attuali.
Tale interesse viene identificato, da alcuni di tali autori, con l’interesse strumentale a che l’impresa societaria realizzi una massimizzazione dell’utile (Ascarelli); da altri, con l’interesse individuale al conseguimento di utili, per mezzo dell’organizzazione comune allo scopo costituita: interesse finale, tipico del socio in quanto tale, variabile con il mutare dei bisogni dei soci nei diversi momenti della vita della società.
Così, per Mengoni, l’interesse sociale è un concetto essenzialmente relativo, in quanto risulta da una valutazione oggettiva degli interessi particolari di cui sono portatori, in un determinato momento, coloro che partecipano alla società.
Richiamando ancora Mignoli, l’interesse sociale è un interesse soltanto in astratto predeterminato, come interesse alla realizzazione dell’utile comune a tutti i soci (art. 2247 c.c.); esso non condiziona l’agire degli organi sociali. Questi stessi sono chiamati ad individuare l’interesse sociale ed a valutare scelte e mezzi concreti per attuarlo. A tal fine la legge predispone un procedimento, governato dal principio maggioritario.
In tale quadro, il socio non ha un obbligo, né giuridico, né morale, di perseguire l’interesse sociale.
La norma dell’art. 2373 c.c. pone un limite (esterno) all’esercizio del diritto di voto da parte del socio, il quale è libero di perseguire interessi anche extra-sociali, purché da ciò non derivi danno alla società.
Funzione della norma è, infatti, quella di impedire che il principio maggioritario si trasformi in strumento di sopraffazione della maggioranza sulla minoranza.
La teoria contrattualista dell’interesse sociale trova moderna espressione nella teoria dello shareholder value, la quale identifica l’interesse sociale con l’aumento del valore reale delle azioni.
La teoria economica – si è osservato – pone come obiettivo della gestione sociale quello di massimizzare il valore attuale delle azioni. Questo obiettivo non necessariamente si identifica con la massimizzazione degli utili; agli investitori interessano i flussi di cassa che l’investimento azionario potrà generare nel tempo. La qualità della gestione viene misurata in termini di valore creato, più che di utili (di bilancio); il che non significa che tra i due concetti vi sia contrapposizione.
Ciò consiglia una lettura dello scopo sociale, come definito dall’art. 2247 c.c., in termini di massimizzazione del valore degli azionisti. Il riferimento agli utili da dividere tra i soci va inteso nel senso, più generale, di un interesse comune dei soci alla massimizzazione delle utilità economiche loro derivanti dall’investimento azionario; che poi si riflettono, in ciascun momento, nel valore attuale delle azioni.
Lo shareholder value, nei moderni codici di comportamento, rappresenta il principio guida dell’azione degli amministratori.
Così, secondo il vigente codice di autodisciplina delle società quotate, «gli amministratori agiscono e deliberano con cognizione di causa ed in autonomia, perseguendo l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti» (1.P.2.).
Lo shareholder value, quale massimizzazione del profitto derivante dall’investimento azionario, viene individuato e definito nell’ambito di una prospettiva di medio-lungo periodo, secondo criteri specifici, che hanno riguardo non solo alla performance dell’azienda societaria, ma anche alle strutture del governo societario. In quest’ultima prospettiva, vengono presi in considerazione ulteriori elementi, come i criteri di remunerazione del management, che incidono sul valore delle azioni.
Secondo l’attuale codice di corporate governance del Regno Unito, l’organo amministrativo ha il compito di promuovere il successo della società in una prospettiva di lungo periodo («Every company should be headed by an effective board which is collectively responsible for the long-term success of the company» – UK Corporate Governance Code 2010, A.1, Main Principle). A tale fine, assume rilievo la struttura della remunerazione degli amministratori: «Levels of remuneration should be sufficient to attract, retain and motivate directors of the quality required to run the company successfully, but a company should avoid paying more than is necessary for this purpose. A significant proportion of executive directors’ remuneration should be structured so as to link rewards to corporate and individual performance» (D.1, Main Principle). «The performance-related elements of executive directors’ remuneration should be stretching and designed to promote the long-term success of the company» (D.1, Supporting Principle).
Lo scopo della creazione del valore viene esteso dal codice di corporate governance tedesco agli interessi degli stakeholders : «Der Vorstand leitet das Unternehmen in eigener Verantwortung im  Unternehmensinteresse, also unter Berücksichtigung der Belange der  Aktionäre, seiner Arbeitnehmer und der sonstigen dem Unternehmen verbundenen Gruppen (Stakeholder) mit dem Ziel nachhaltiger Wertschöpfung» (4.1.1).
L’importanza della nozione di shareholder value ai fini dell’individuazione dell’interesse sociale viene riconosciuta dallo stesso Jaeger. Ritornando sull’argomento, oggetto del suo primo scritto giuridico, l’Autore, alla luce dell’evoluzione della disciplina delle società e dei mercati finanziari (disciplina dell’OPA; dottrina e giurisprudenza in materia di diritto di opzione e di gruppi di società), giunge alle conclusioni seguenti.
La teoria dello shareholder value – identificando l’interesse sociale con l’interesse (esclusivo) dei soci, intesi come gruppo, all’aumento del valore delle proprie azioni – rappresenta, apparentemente, una concezione contrattualista.
Tuttavia, rispetto alle concezioni contrattualiste tradizionali, si deve osservare che:
– l’interesse è dei soci attuali, ma è destinato ad essere soddisfatto pienamente solo con la perdita della qualità di socio, ossia con la cessione delle azioni, attraverso la quale si realizza il loro valore reale;
– poiché il valore delle azioni tende a dipendere dal valore dell’impresa azionaria, non si comprende, allora, quale sia la differenza tra l’interesse alla crescita economica dell’impresa e la shareholder value, che si avvicina, così, alla teoria istituzionalista dell’impresa in sé.
Si deve allora prendere atto che, recependo argomenti tanto dalla teoria contrattualista, quanto da quella istituzionalista dell’interesse sociale, la teoria dello shareholder value realizza il superamento di entrambe tali teorie.
Alla luce dell’attuale disciplina della società per azioni, risultante dalla riforma del 2003, disciplina caratterizzata dalla centralità dell’impresa e dalle esigenze legate al suo finanziamento, è evidente l’inadeguatezza dell’impostazione tradizionale, fondata sulla contrapposizione tra teoria contrattualista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse dei soci n quanto tali – e teoria istituzionalista – che identifica l’interesse sociale con l’interesse dell’impresa in sé.
Nell’attuale sistema, invero, assume rilevanza una pluralità di interessi, inerenti ai diversi tipi di finanziamento, attraverso cui sono tratte le risorse necessarie allo svolgimento dell’impresa.
A tali, molteplici, interessi, attinenti alla struttura finanziaria della società per azioni, si riconosce, in diversa misura, rilevanza sociale.
L’emissione, da parte della società, di una pluralità di tipologie di azioni, obbligazioni e strumenti finanziari comporta il sorgere di potenziali conflitti orizzontali, ossia di conflitti di interesse tra diverse categorie di finanziatori/investitori.
Alla gestione di tali conflitti provvede la legge ed, eventualmente, in via preventiva, lo statuto sociale, attraverso clausole che realizzino una oculata modulazione dei diritti di voto e di partecipazione accordati alle varie categorie, anche con riferimento alla nomina e alla composizione degli organi di amministrazione e di controllo (vds. art. 2351, ult. comma, c.c.; art. 2387 c.c.).
Coerentemente, in una società a struttura finanziaria complessa, l’azione degli amministratori dovrà tendere alla massimizzazione del risultato economico complessivo (creazione di valore), a vantaggio dell’insieme delle varie categorie di finanziatori.